venerdì 24 aprile 2009

Sabato 21 febbraio 2009

Scrive Heidegger: “Dove il linguaggio si fa parola? Pare strano, ma là dove noi non troviamo la parola giusta per qualche cosa che ci tocca, ci trascina, ci tormenta o ci entusiasma”.

Mi capita spesso di fermarmi ad
analizzare il mistero delle parole e
del linguaggio verbale che ci caratterizza
in quanto uomini.
Succede a volte che un solletico di
stupore mi colga nel momento in
cui cerco di chiamare il mio compagno
per nome e la voce non mi esce
perché non c’è suono che trovi corrispondenza
precisa alle mie idee:
ora che gesti, confidenze, esperienze
condivise ci fanno più vicini rispetto
a quando eravamo solo conoscenti,
mi sorprende una sensazione
di inadeguatezza che non mi
permette di trovare una qualche
manciata di lettere a cui affidare lo
status della mia anima.
Perché le situazioni cambiano, ma le
parole a disposizione restano le
stesse, con l’arduo onere di raccontare
la passione e la storia del nostro
affetto quando chiamiamo le
persone care; perché le nostre sensazioni
e le sottili pieghe dei nostri
pensieri delicatamente ma necessariamente
si modificano, ma la parola
resta sempre quella di ieri, cattiva
interprete degli interiori mutamenti.
Penso a cosa si cela dietro il nome
con cui ci rivolgiamo a un figlio cresciuto,
che non è più quello che
sgridavamo da piccolo; a quale potenza
evocatrice sia contenuta nel
chiamare una persona che tuttavia
non c’è più: nomi che suonano sempre
i medesimi nell’aria e così non
riescono a farsi testimoni della condizione
cangiante della nostra anima
e della realtà esterna. Termini
sempre identici che se da una parte
sopperiscono al nostro bisogno di
punti fermi, dandoci l’illusione che
qualcosa resti uguale, dall’altra mal
ci aiutano a trovare cosa sia, poiché
incapaci di rivelare la profondità
delle nostre intenzioni.
Forse che tutta quella razionalità
dietro a cui ci rifugiamo, e in nome
della quale ci sentiamo padroni,
davvero non basti a se stessa e affondi
le radici della sua magnificenza
su ciò che invece le è estranea
e inafferrabile?
Se per la densità, la tortuosità, la sinuosità,
l’ineffabilità del nostro sentimento
trovassimo la parola giusta, questa lo
racchiuderebbe come una lapide sigilla
una tomba. È infatti nella natura del
sentimento non lasciarsi esaurire dalle
parole che lo nominano e, grazie all’insufficienza
espressiva delle parole, il
sentimento può lasciar trasparire quello
che è suo proprio: l’inesprimibile.
Il sentimento, infatti, vive proprio nel
non riuscire mai a dirsi completamente,
quindi nel suo custodirsi come riserva
sorgiva di un’ulteriorità di significazioni,
esattamente come la parola poetica che
non nomina mai “questo” o “quello”, se
non per alludere a un’eccedenza di
senso a cui nessuna parola propriamente
corrisponde.
Per questo ogni parola dettata dal sentimento
è orlata dal silenzio, dove risuona
tutto il senso che la parola enunciata
non riesce a dire. Ma chi vive il silenzio
come una riserva di senso? Chi va alla
ricerca del suo risuonare? Chi si pone
sulla soglia del non-detto, che non è il
taciuto, ma ciò che nessuna parola riesce
propriamente a dire? Nessuno. Perché
la nostra cultura, che è una cultura
dell’inflazione delle parole, ama l’esplicitazione
totale, l’enunciazione chiara, la
significazione definita, e, temendo tutto
ciò che sfugge al controllo, guarda con
sospetto ciò che si sottrae alla verbalizzazione,
come per esempio l’insondabilità
del silenzio, l’impenetrabilità del segreto,
e in generale tutti quei recessi dove
la profondità del senso non si espone,
non si esplicita, ma si custodisce.
L’insufficienza del linguaggio non è semplice
povertà linguistica, ma segno che
l’orizzonte del sentimento è molto più
ampio dell’orizzonte della parola. E proprio
là dove la parola manca, siamo nelle
prossimità di un evento sentimentale
non ancora usurato dal linguaggio o non
ancora raggiunto nella sua abissalità.
Ma chi ama gli abissi del sentimento
che non si lasciano esprimere nei modi
di dire? Chi, senza terrore, sa porsi in
ascolto di ciò che non giunge alla parola
e, proprio perché non si lascia codificare
dal linguaggio abituale, è l’assolutamente
nuovo che turba la quiete?
Noi, che diciamo di amare le novità, in
realtà ci teniamo assolutamente lontani
dall’insolito, dall’inusuale, dall’imprevisto,
che sono i tratti con cui il nuovo si
annuncia e, nel suo annunciarsi, inquieta.
E allora bisogna essere forti per
abitare i bordi del linguaggio, le sue insufficienze,
le sue inesprimibilità che
sono costitutive del sentimento, come ci
ricorda Platone là dove scrive: “Gli
amanti che passano la vita insieme non
sanno dire che cosa vogliono l’uno dall’altro.
Non si può certo credere che solo
per il commercio dei piaceri carnali
essi provano una passione così ardente
a essere insieme. È allora evidente che
l’anima di ciascuno vuole altra cosa che
non è capace di dire, e per ciò la esprime
con vaghi presagi, come divinando
da un fondo enigmatico e buio”.

Umberto Galimberti

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