Non fosse altro che per la rubrica di Umberto Galimberti, il primo uomo barbuto di cui mi sono innamorata.
Riesce sempre a darmi una risposta; a farmi pensare di non essere poi così malata, mostrandomi che c'è qualcun'altro che si fa le mie stesse domande - anche se il più delle volte questo qualcun'altro ha circa una quarantina d'anni più di me.
Ma preferisco sentirmi vecchia dentro, che psicopatica.
"Noi solo da vecchi avvertiamo la tragicità dell’esistenza, dopo esservi pervenuti anche attraverso ansie e angosce di una pienezza della vita che ci passa come acqua dalle mani.
È una dimensione che si affaccia brutalmente con la perdita di pezzi di vita, morendo le persone che ne hanno fatto parte, ma anche con il disincanto e la caduta definitiva del supporto ormonale che costituisce un formidabile proiettore di senso, regista inavvertito.
È un processo di spoliazione di senso che si accompagna alla idea che forse non era il caso di prendersi troppo sul serio. È straordinaria l’ipotesi di una esistenza finalmente affrancata dal senso prestabilito, sia pure in assenza di alcun senso."
Lorenza Dotti, Milano
E Umberto risponde:
A tutti coloro che cercano il senso della vita, Sartre ricorda che quando questa si compie “è la stessa cosa essersi ubriacati in solitudine o aver guidato popoli”. Anzi forse “il quietismo dell’ubriaco solitario vincerà l’inutile agitazione del condottiero di popoli”.
Penso che la dimensione tragica dell’uomo, ben individuata da Nietzsche, consiste nel fatto che, per vivere, l’uomo ha bisogno di costruirsi un senso, in vista della morte che è l’implosione di ogni senso.
Se tenessimo ben presente questa considerazione, con cui la grecità espresse la sua sapienza, forse troveremmo la giusta misura nel nostro frenetico affaccendarci nella vita. E un po’ di ironica bontà prenderebbe il posto di tanta prepotenza e ferocia con cui gli uomini cercano l’un l’altro di superarsi quando non di sopprimersi.
Nati per caso, vissuti per una serie di coincidenze che hanno tracciato il percorso
della nostra vita, moriamo per deterioramento del nostro organismo, senza neppure la nostra collaborazione.
In fondo, come ci ricorda Schopenhauer, nasciamo per la continuità della specie, a cui interessa la riproduzione, e non il senso della vita degli individui che, a loro insaputa, collaborano a questo scopo.
So che questo discorso fa irritare tutti coloro che sono cresciuti all’interno di narrazioni religiose sempre prodighe di senso, anzi così prodighe da promettere agli uomini l’immortalità. Sedotti da questa promessa cristiana e poi islamica, la sapienza greca, che considerava queste promesse “cieche speranze”, dovette cedere e si estinse.
Con questo non dico che le religioni, in forza di questa promessa, non abbiano dato un grosso impulso alla cultura occidentale, presentando un futuro che non implode nel nulla. E questo ottimismo ha contaminato anche la versione laica della nostra cultura, che ha sempre guardato al futuro con speranza, se non di salvezza, certo di progresso.
Di fatto, invece del progresso, che sottintende un miglioramento “qualitativo” della condizione umana, abbiamo realizzato solo uno sviluppo, particolarmente evidente, per noi occidentali, in ambito economico e tecnologico. Ma “sviluppo” vuol dire aumento “quantitativo” di un fenomeno, non incremento di senso della vita umana e in particolare di quella individuale.
Viviamo finché amore ci sostiene. E se fosse davvero qui la differenza tra l’uomo e l’animale che riesce a vivere anche senza amore? Perché se questo è vero, possiamo sentirci all’altezza della condizione umana per quel tanto che sappiamo amare. Perché amore non cerca un senso nell’al di là e neppure nel futuro. È la felicità del presente che, se siamo in grado di amare, dura per tutto il tempo in cui la vita ci è concessa.
A volte penso che aver preferito Economia a Filosofia sia stata sola una scelta di sopravvivenza.
I numeri son una buona cura.
3 commenti:
No, non sei nè senile nè psicopatica, sei solo assai più intelligente della media, e quindi per questo nella vita avrai come dono una dose di dolore superiore a tutti gli altri!
L'unica cosa che non condivido tanto del post è il finale "i numeri sono una buona cura". I numeri, e chi li studia (me compreso),sono gli artefici della civiltà tecnologica industriale, della "società del benessere" che in realtà si sta rivelando quella del malessere, sia pure interiore.
Grazie. Sei molto gentile.
Per quanto riguarda i numeri, era un commento del tutto personale. Sono una cura per me, perchè concentrarmi su di loro, mi toglie del tempo che impiegheri senz'altro con i miei pensieri sconclusionati.
D'altra parte sono convinta che se la società non avesse inziato a studiare i numeri scoprendo il mondo della scienza e poi della tecnologia, si sarebbe continuata ad affidare alla religione, evitando tutti i problemi che ti evita credere in qualcosa di più grande di noi.
ciao
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